La mia Storia

l’esperienza più grande che continuo a vivere è quella di un modo di stare insieme che chiede di cambiare

Chiara

Non c’è chi è più avanti e chi più indietro. Se parliamo di domande, di quelle che tolgono il fiato o inchiodano i passi, del sapere perché e per chi si sta al mondo, allora ognuno è di fronte agli stessi blocchi di partenza. Chiara, operatrice della Comunità San Francesco, parla di un pezzo di strada che tutti, qui a Marzalengo, fanno in egual misura. “Dopo 14 anni di servizio, l’esperienza più grande che continuo a vivere è quella di un modo di stare insieme che chiede di cambiare, di diventare sempre più maturo”. Succede se non si bara con la vita. Se di fronte a certi interrogativi non credi di essere a posto. “A un certo punto – dice Chiara – il giro di boa arriva anche per te. A me è successo lavorando qui. Ho detto a chi mi stava vicino: o mi aiuti, o vado via. È la stessa cosa che speriamo accada alle ragazze: il confronto, il dire: ho bisogno. Se non facciamo noi questo tipo di esperienza, come possiamo essere credibili?”.

Allora diventa indispensabile il paragone continuo, il mettersi in discussione. L’altro (la collega o le tre suore dell’ordine delle Adoratrici che vivono da sempre a Marzalengo) diventa necessità. “Non è sempre facile – ammette Chiara – ma è quasi sempre utile: l’altro ti fa vedere un pezzo che tu non vedi, che spesso ti sfugge. Il nostro è un cammino di gruppo”.

Nel lavoro di tutti i giorni la presenza operosa delle suore Adoratrici del Santissimo Sacramento è essenziale. “Vivono una comprensione fuori misura della fatica e del travaglio di chi è qui. Non lo immagineresti, da fuori, ma non c’è pericolo di prediche. Quello in cui credono, lo fanno passare con i gesti”. E in questo esserci senza pretese, le suore indicano e insegnano molto: “Non giudicare l’altro per l’errore commesso; tirare fuori il buono che c’è in tutti. Non temono alcun argomento, sono concrete, umanissime”.

Chiara parla del suo lavoro come “una ricchezza e una fatica” insieme. “Accompagnare chi è qui – dice – richiede un livello di implicazione che non è mai solo professionale. È anche e soprattutto personale”. L’arma più grande da mettere in gioco, quella che spezza la formalità di una distanza noi-voi, si chiama “relazione”. “La cosa che più desiderano le ragazze è quella di essere viste. Di essere riconosciute. Vogliono qualcuno che le scelga tutti i giorni, quasi ogni minuto”. Allora nasce, in mezzo a mille inciampi, un legame che diventa risorsa. Cioè un rimettersi in moto, un sollevarsi da terra – risorsa deriva da resurgere, risorgere. “A volte rischiamo di immaginare che l’unica riuscita di questa relazione sia una mamma che esce da qui, trova lavoro e cresce suo figlio in un rapporto stabile e sano con un uomo. Lo speriamo tutti, ma è riduttivo. La buona riuscita, invece, è ogni volta che una ragazza ti dice: io non ce la faccio”. È un modo di guardare le cose che abbandona certi standard. “Non si è abituati a ragionare così – ammette Chiara –. È fuori dagli schemi. O dal tuo schema. È la nostra sfida”.